Slow Motion – Luca Beatrice
In diverse occasioni mi è capitato di osservare come l’inserimento del tempo (o una riflessione su di esso) sia il primo elemento foriero di concettualità dell’opera d’arte. Spesso addirittura è proprio il tempo a stabilire tale cittadinanza, a farci scegliere un lavoro piuttosto che un altro, a liberarci da letture formali o iconologiche. Senza il tempo cosa sarebbero, ad esempio, i Date Paintings di On Kawara? Forse semplici sequenze numeriche. E gli orizzonti sul mare di Hiroshi Sugimoto? Soltanto la ripetizione insistita di paesaggi colti tutti dalla medesima inquadratura. Paradigmatico è, ancor prima, il caso della Lampada annuale di Alighiero Boetti (1966): in apparenza una semplice scultura contenente una sorgente luminosa, progettata per accendersi inaspettatamente una volta all’anno per undici secondi, alludendo così – scrisse Boetti “agli innumerevoli avvenimenti che avvengono senza la nostra partecipazione e conoscenza”. Non potendo noi restare in attesa dell’evento, ci troveremo costretti ad assumere questo principio sulla fiducia senza poter dire di aver visto accadere alcunché, cosa che contraddirebbe in pieno la teoria dell’arte basata appunto sul visibile. Eppure quante opere contemporanee sono costruite proprio su tale discrasia, da Sleep o Empire di Andy Warhol (dove il tempo del cinema coincide con quello reale), a 24 Hour Psycho di Douglas Gordon (dove la manipolazione scivola nel parossismo). Noi sappiamo che queste opere esistono eppure nessuno di noi le ha mai viste – chi resisterebbe sei o otto ore davanti uno schermo a fissare la sagoma del più alto grattacielo di New York o un uomo che dorme? Chi potrebbe prendersi una “giornata di ferie” per assistere alla dilatazione del famoso film di Hitchcock? In verità esistono almeno due forme di percezione che riguardano le opere d’arte contemporanea. Davanti a una foto, un quadro, una scultura, un disegno, un’installazione non interattiva siamo noi a decidere per quanto tempo dovremmo (o potremmo) rimanervi di fronte, se osservare con minuzia i particolari oppure limitarci a un colpo d’occhio generico, stabilendo altresì se una fermata più lunga può consentire una lettura più attenta dell’opera stessa. Se invece ci troviamo in presenza di un’opera in movimento, almeno teoricamente dovrebbe esserci un tempo esatto di fruizione, anche se raramente viene rispettato. Può succedere, ma è raro, che uno spettatore cinematografico abbandoni il film a metà (a meno che non sia bruttissimo) o che entri in sala a spettacolo iniziato. Allo stesso modo un lettore serio quasi sempre finisce il libro e non ne salta intere parti per arrivare più in fretta alla fine. Queste, infatti, sono opere diacroniche che prevedono uno svolgimento temporale, esattamente come i video, la videoarte o i film d’artista che in percentuale occupano uno spazio sempre più rilevante nelle mostre internazionali. Un video ha infatti una sua durata, anche se non corrisponde necessariamente a uno sviluppo logico-narrativo: eppure quante di queste opere abbiamo visto realmente dall’inizio alla fine? Quanti spettatori medi si soffermano appena qualche minuto (qualche secondo), soprattutto quando l’autore non è conosciutissimo? E se veramente volessimo “vedere tutto” quanto tempo ci vorrebbe allora per dire di “aver visto” una mostra per intero? (Daniel Soutif, che al Tempo ha dedicato un importante progetto curatoriale, mi ha raccontato di averci messo quattro giorni interi a visitare l’ultima Documenta, non tralasciando neanche un video, e forse quattro giorni sono davvero troppi). La mia interpretazione di Systems, il nuovo ciclo su cui Davide Coltro lavora da oltre un anno con una messa a punto sempre più rigorosa, parte proprio da queste considerazioni. Come trasformare la fruizione tradizionale “sincronica” di un’opera a parete o comunque statica, in una successiva fruizione “diacronica” che preveda lo sfondamento temporale, l’esperienza dell’attraversamento? Di fatto noi ci troviamo di fronte a una cornice, ciò che del quadro costituisce il limite fisico oltre il quale c’è la realtà e aldifuori della quale non c’è più l’arte. Tale cornice però non delimita un’immagine fissa, la sola e immutabile nel tempo come avviene ad esempio nella pittura – per cui si dovrà dire che l’immagine bidimensionale è indelebile e irreversibile, come un tatuaggio – ma si propone da ricettore in grado di aggiornarsi ricevendo altre opere che Coltro invia dalla sua postazione digitale in un momento prestabilito. Quale sarà allora la posizione corretta di fronte a questo nuovo oggetto artistico – tecnologico? Supponiamo di essere usciti dalla galleria a una data ora avendo lasciato una certa immagine sul monitor e, rientrandovi, di averne trovata un’altra: è come se qualcuno, in nostra assenza, avesse cambiato il “quadro”, niente di strano, niente di male. Ma ciò che è più interessante sapere è che a un certo momento l’immagine B avrà preso il posto dell’immagine A come in una dissolvenza cinematografica. L’essere stati presenti a questo evento equivale all’aver assistito all’epifania dell’opera, ma come nel caso della Lampada annuale noi non possiamo sapere quando questo avverrà oppure se è già accaduto e da quanto tempo. Ci troviamo pertanto in quella stessa condizione di incertezza che si verifica in attesa alla fermata dell’autobus: è appena passato oppure no? Quanto dovremo aspettare? Varrà la pena accendere una sigaretta? I cosiddetti reality show, i programmi che hanno contraddistinto questo inizio televisivo di terzo millennio, devono il loro successo a un analogo meccanismo di attesa vanificata: è inevitabile che qualcosa accadrà, ma non sappiamo né cosa né quando, e vista l’impossibilità, nonostante il satellite, di vivere con i protagonisti del Grande Fratello o dell’isola dei Famosi 24 ore su 24 è molto probabile che ben pochi si troveranno con la tv accesa nel momento in cui la situazione cambierà di stato (una scena di sesso, un forte litigio, un momento di disperazione), eventi che ci verranno raccontati in uno speciale riassunto del giorno dopo senza però potersi valere dell’effetto “tempo reale”. Ed è proprio il transito, la consapevolezza del passaggio, a costituire il fulcro concettuale dell’opera di Coltro. Si torna così un’altra volta a Boetti, a un’altra opera giovanile, il Contatore (1967) che voleva fermare l’esatto momento in cui il vecchio tachimetro dell’auto segnava il passaggio da un centinaio all’altro (da 799 a 800, da 999 a 1000 e così via) e che dall’avvento del digitale si può appena catturare per una minima frazione di secondo mentre, paradossalmente, spegnendo l’auto proprio in quel preciso istante l’immagine del contatore tra i due numeri si sarebbe potuta bloccare per sempre. Per Davide Coltro la questione sta ancora oltre. Se non esiste un tempo esatto di permanenza davanti a un’opera video che non evolve in senso narrativo, non utilizza il loop e dove in sostanza non accade nulla, non essendo lo spettatore avvisato che prima o poi l’immagine sul monitor cambierà (i Systems della mostra sono tarati su mutazioni ogni 5 o 10 minuti unicamente a scopo dimostrativo, quando l’opera troverà la sua collocazione il flusso sarà più lento e soprattutto non regolare), c’è forse un tempo “tecnico” di fruizione per l’immagine bidimensionale? La seconda parte del progetto di Coltro si chiama Medium Color Landscapes, una serie di scatti fotografici sul tema del paesaggio di norma riferibili al territorio d’indagine in cui è nato il lavoro. Il punto di vista dell’artista veronese su un genere così storicamente codificato nella storia della pittura e della fotografia non riguarda dunque l’atto finale -la contemplazione del paesaggio- ma la costruzione che avrà portato a quella -solo quella- immagine, la cui attesa può essere lunga, comunque non quantificabile perché tra un’immagine e l’altra c’è la vita vera con i suoi imprevisti e le sue interruzioni. In fondo ciò che noi vediamo non è che una sfumatura possibile, magari accidentale, di una costruzione artistica ben più complessa e articolata che però coincide con l’esistenza. Con Coltro ti porti via un intero tempo altro dove tutto è più rallentato e dove il tempo che abitudinariamente mettiamo a disposizione per la lettura di un’opera d’arte è poco, troppo poco.
Macchine Ribelli – Maurizio Sciaccaluga
Quelle di Davide Coltro sono macchine ribelli. Magari non alla Terminator, forse non alla Ballard – nel senso che non si arriva allo scontro fisico creatura vs. creatore, non prende campo una rivoluzione cruenta del metallo contro la carne – ma di certo non mancano affinità e convergenze tra i suoi System e l’immaginario tecnoapocalittico di Aldous Huxley e del Kurt Vonnegut di Piano meccanico, tra il suo ciclo dedicato al Colore medio e le inquietudini elettroniche di H.G. Wells e Michel Houellebecq. Le opere dell’artista veronese sono solo un primo, piccolissimo passo verso una situazione come quella dei dieci Controllori ipotizzata da Huxley in Il mondo nuovo, ma mettono talmente a soqquadro la concezione dell’oggetto d’arte e il rapporto tra artista e collezionista che non è possibile fuggire da una lettura fantapolitica e socio-tecnologica del lavoro e della ricerca. Coltro non è altri che il Grande controllore Mustapha Mond: sembra sapere che “la libertà nuoce alla felicità”, che il motto giusto possa essere solo “comunità, identità, stabilità”, che l’ordine del sistema sia garantito esclusivamente da una sorveglianza rigorosa sui numeri e sulle tipologie. Dunque, sceglie per sé e per tutti, soprattutto per chi non sarebbe in grado di farlo al meglio. Allo spettatore, e ancor più al collezionista, nega un diritto acquisito da tempo, probabilmente ingiusto ma oramai conquistato usu capione: quello di sentirsi, insieme all’autore, depositarlo del senso dell’opera, proprietario e testimone del suo significato. L’artista, con la serie dei System, decide che la sorpresa e l’inaspettato diventano un marchio di fabbrica, della sua fabbrica: non più un quadro o una fotografia da esporre e rivedere di continuo, da possedere, ma uno schermo dove, inviate via etere, scorrono immagini selezionate lontano, messe in successione secondo una logica impossibile da decodificare al momento. L’autore, cedendo l’opera, non cede più i suoi diritti su di essa: continua a controllarla, a mutarla, a variarne intensità, colore e tema, e chi la guarda – in galleria o in casa – è comunque sempre colto alle spalle, preso alla sprovvista. In pratica, si sceglie di osservare o acquistare un punto interrogativo, un effetto sorpresa che non si potrà mai conoscere a fondo. Al cospetto della ricerca più attuale di Coltro, viene a cadere quella strana sicurezza che sorregge gli individui quando sono al sicuro nelle proprie case, o a loro agio in territori protetti quali quelli delle gallerie: circondati da cose conosciute, amate, scelte, desiderate, si sentono al riparo dai colpi di scena del destino, da sgradevoli o troppo gradevoli (ugualmente sconvolgenti) novità. Ebbene, i lavori dell’artista mettono in crisi tutto questo: case e gallerie cambiano scenari e panorami senza possibilità di controllo, proprio come il mondo che li circonda, e in un’arte oggi progettata, stu-diata, pesata, analizzata entra in gioco la paura. Non l’orrore, ma il timore di ciò che non si conosce, quel sentimento sgradevole che prende ogni qual volta si stia per arrivare in un posto che non si conosce affatto. Il System è una macchina ribelle, appunto, destinata a creare aspettativa, attesa, inquietudine: mentre qualunque altro oggetto d’arte è l’appagamento del desiderio d’una forma, d’un concetto, l’apparecchio in questione è atto a cortocircuitare una tensione contínua, mentre qualunque altro oggetto d’arte è la risposta a una domanda, questo è una domanda che non chiede e non attende risposte. L’uomo che l’ha progettato e continua a controllarlo a distanza non lo ha sotto gli occhi, resta in dubbio se obbedisca o meno ai suoi comandi, se non cominci in fondo a vivere di vita propria, chi ce l’ha sotto gli occhi non sa cosa possa fare e mostrare da un momento all’altro, non sa cosa aspettarsi dal suo fido compagno di vita. Come pure nella letteratura di Huxley, nella ricerca artistica di Coltro è centrale la riflessione sul rapporto tra emozione soggettiva e realtà oggettiva, tra apparenza estetica (conseguenza) e ragione scientifica (causa). Pur convivendo nello stesso prodotto, nel medesimo oggetto, i diversi aspetti della questione non trovano mai un vero punto d’incontro, non si sposano certo, e nemmeno si sopportano. La scienza e il calcolo controllano l’emozione (primo paradosso) – basti pensare ai paesaggi di Colore medio, realizzati calibrando un unico tono di viraggio sull’intera immagine, tono risultante dalla combinazione matematica di tutte le componenti cromatiche presenti nel pezzo – mentre il risultato estetico deve dare infine ragione o torto alla formula scientifica (secondo paradosso). Per quanto giuste (se lo sono), per quanto intelligenti, le macchine dell’artista sono e restano ribelli: azionate dall’uomo, non gli si rivoltano contro, ma comunque si dirigono dove loro, solo loro, scelgono di andare. Nonostante non sembrino aggressive, nonostante abbiano dominanti affascinanti o tranquillizzanti – ma si tratta di una tranquillità tutta ancora da dimostrare, imposta e costretta dall’alto – le opere di Davide Coltro sono invece pronte a colpire, a stupire, a graffiare. Con la stupefacente semplicità di quei misteri, di quelle sorprese, racchiusi nella quotidianità. Non sono soltanto le immagini future – ancora sconosciute – a tendere trappole a chi ha scelto di acquistare e di guardare al buio, arrendendosi a priori al Grande controllore, non sono solo i colori reali cancellati e ricoperti – violentati – dal tono medio a lanciare nell’aria il tono interrogativo di un punto di domanda (dove?); il mistero – alla CSI o alla X-File – è nel silenzio irreale dei panorami, nel vuoto assoluto di rumori in tutti gli orizzonti raffigurati. Il mistero non è in quello che c’è nei lavori, ma in quello che manca: mancano i segni della vita che scorre, manca il frastuono della gioia e del dramma, manca il ritmo dei cuori pulsanti. Queste scene del crimine, questi scenari futuri, questi spot pensati da un grande fratello, questi spaccati da mondi lontani non hanno colonna sonora: scorrono senza fiatare, si susseguono senza avvertire, accelerano senza aumentare di giri. Qualcosa, dunque, non quadra: la vita fa rumore, fa un rumore tremendo e assordante. È il sogno a procedere silenzioso: che qualcuno stia rubando l’immaginazione e gli incubi dell’artista?
Note progettuali – Davide Coltro
Con la parola “SYSTEMS” è definito un progetto di arte visiva digitale che si avvale di varie tecnologie per mettere in connessione l’artista con il fruitore. L’elemento innovativo che questo progetto ha generato è stato per ora definito iperframe (ipercornice) e cioè una cornice tecnologica in grado di aggiornarsi ricevendo le nuove opere che l’artista invia dal suo studio digitale. Un nuovo media (o la spontanea maturazione del quadro tradizionale) che rivoluziona creazione e fruizione dell’arte anche in riferimento al mondo informatico, da cui il progetto trae le sue peculiarità. Si può parlare dell’invenzione di una nuova periferica e cioè di un dispositivo che si appropria dello status di quadro a parete quanto della funzione estetico-visiva che prima gli era negata in quanto considerato solo strumento tecnico. L’artista deve necessariamente modificare il suo iter progettuale e creativo, ora destinato alla trasmissione e diffusione di opere non più materiali, bensì costituite da un insieme di dati binari che finiranno per ricrearla a distanza con una fedeltà assoluta. Questo significa che attraverso la riproducibilità, tanto deprecata da Benjamin in poi, l’arte creata digitalmente gode di uno statuto di invulnerabilità che garantisce e garantirà la sua sopravvivenza sia nel tempo che nello spazio. Le icone digitali che animano gli iperframe, in questa prima serie di mostre, appartengono al genere classico del paesaggio. Questo soggetto, nello sviluppo concettuale della pittura e del quadro, è usato come finestra sul mondo, espediente in grado di portare al virtuosismo tutte le tecniche prospettiche conosciute e raffinate dal rinascimento in poi, tentando con mezzi nuovi di porre lo spettatore in relazione ad una realtà che oggi potremmo definire un mondo virtuale oltre la tela. In questi paesaggi, l’accento non è necessariamente posto sulla qualità dell’impianto fotografico, sebbene questi landscapes siano contemporanei in quanto mediati da agenti devianti quali la velocità, la giustapposizione di un filtro come un finestrino, un oblò o altri ostacoli che simboleggiano l’impossibilità dell’uomo contemporaneo di avere un rapporto diretto con la visione di natura. Nonostante queste precisazioni, gli scatti generatori di queste opere sono comunque di stampo classico e la loro peculiarità risiede sull’operazione di trasformazione dell’immagine applicando il concetto di colore medio, ottenuto vivendo in prima persona la rivoluzione dell’iperframe che spinge ad esplorare i fattori distintivi dell’arte digitale. Questo valore, ottenibile solo rispettando completamente il ciclo digitale (dalla foto alla stampa o trasmissione) di creazione dell’opera, rappresenta una pura astrazione in termini di luce e colore. Quindi, proprio questo valore astratto-estratto dalla realtà fotografata, diventa una nuova pelle da applicare allo scheletro dell’ immagine generata. Lavorate con gli accorgimenti e le possibilità incontenibili della pittura digitale, queste foto di paesaggi possono testimoniare un’operazione che non si discosta mai dalle sue radici prettamente pittoriche.
Cento Tazze di The alla Menta * – Ivan Quaroni
Un volto rinascimentale innestato sul tronco di Ben Grimm dei Fantastici 4. Fu questa l’impressione che ebbi una piovosa giornata d’inverno del 2002, quando per la prima volta incontrai Davide Coltro durante l’inaugurazione di una mostra di Martin Malhoney. Dopo quel giorno, iniziò la lenta danza della nostra amicizia, un miscuglio di salamelecchi, schiette confessioni da taverna e, qua e là, qualche scherzoso colpo di fioretto. A Milano, la città dove entrambi viviamo e lavoriamo, lo scenario delle nostre conversazioni sull’arte, il cinema, la letteratura e il fumetto – con qualche fugace, ma saputa incursione nei territori dello spirito – variava dalla tavola imbandita di qualche ristorante sui navigli alle chiassose e improbabili osterie (e persino latterie) dove saltuariamente si diletta di condurmi, insieme a qualche malcapitato artista. Le nostre discussioni, innaffiate da abbondanti dosi di gassosa (da parte sua) e di caffè (da parte mia), erano e sono tuttora un allegro divertissement, una sorta di cabaret mistico, a metà tra la maieutica socratica e la disquisizione dotta, tra la romantica reverie e lo schiamazzo da bassifondi. Dei suoi lavori mi erano piaciuti subito i Misteri, per quella capacità, tutta platonica, di dare forma e corpo a un pensiero, mescolando suggestioni pittoriche e tecniche digitali. Neí Misteri, che furono la cagione del nostro incontro in seguito ad una mia recensione su Flash Art, Coltro era riuscito a dire quello che altri, da tempo, preferivano ignorare. E cioè che l’uomo è transitorio, immerso nel flusso eracliteo dell’impermanenza, e allo stesso tempo immortale, come le forme ideali che baluginano nella sua anima antica. I Viventi, quei ritratti quasi fiamminghi ottenuti fotocopiando letteralmente i volti di straniti avventori, quelle trappole per l’anima cui ebbi la ventura di sfuggire come un indigeno dinanzi a una macchina fotografica, altro non erano che la controparte terrestre dei Misteri. Eppure la sostanza rimaneva invariata. Nei Misteri, Coltro estraeva un frammento della realtà per riportarlo alla sua origine trascendente, mentre nei Viventi, documentava la coesistenza del volto ideale nella fisionomia del quotidiano. Avevo a lungo meditato sulla natura anfibia dell’uomo, sospesa tra terra e cielo.
L’Incontro tra me e Davide, se mai fu casuale, avvenne sulle coordinate di questo pensiero_ Col tempo, come un elastico, la nostra amicizia è ruotata attorno a questo punto fisso, flettendosi e distanziandosi dal centro secondo necessità Le sue curiose e agitate esperienze di vita, me lo hanno fatto apprezzare per quel tanto di geniale e di furbesco, di pragmatico e di ideale, di saggio e di mefistofelico che compone la sua multiforme personalità. Coltro – chissà quante vite fa -è stato un inventore, uno di quelli che brevettava strani e incomprensibili meccanismi d’indubbia utilità. Quando decise di diventare artista – sì, lui è di quei che possono decidere cose del genere! – si portò appresso le sue potenzialità d’inventore, insieme a molte altre capacità misteriose. Senza dubbio, questa sua attitudine è all’origine dei suoi Systems, quei quadri elettronici che non solo ripercorrono il millenario cammino della pittura adeguandolo alle potenzialità della nostra era digitale, ma che prefigurano anche nuove forme di contemplazione. Il perfetto equilibrio tra arte e tecnica è una delle peculiarità della ricerca di Coltro. sempre intento a lavorare su più fronti, a precorrere le mosse future come un giocatore di scacchi, con un occhio alla scacchiera reale e uno a quella immaginaria. Per la verità, immagino Davide Coltro come uno scaltro giocatore di Backgammon, mollemente abbandonato sulla panca di qualche caffè turco, mentre sorbisce la sua centesima tazza di thè alla menta, intento a fingere una sonnolenta distrazione, per poi balzare improvvisamente sull’avversario con la velocità di una tigre. Ecco, me lo immagino mentre schiaccia uno dei suoi proverbiali pisolini – solo dieci minuti per recuperare le forze e tornare più fresco di prima – anticipando nel sonno le sue prossime visioni. Più volte l’ho sentito descrivere, con coloriture da trailer cinematografico, l’idea germinale di una possibile opera, immaginarne i potenziali sviluppi, decantarne la meraviglia con estatico trasporto. Tra un System e un Mistero, tra un Landscape e un Vivente, può darsi anche che Davide si conceda un breve sonno ristoratore pieno di immaginifiche e ambiziose visioni. Lasciatelo sognare. Sono calo che molte di quelle visioni diventeranno presto realtà!
* estratto dai “Taccuini di Studio”