Desert Session: MUF+ToE – Alberto Zanchetta
La ricerca di Daniele D’Acquisto non è mai solo estetica ma sempre più teorica. Da anni l’artista continua a interrogarsi intorno alla zona liminale che separa ciò che è reale (i fenomeni fisici indagati dalla scienza) da ciò che è ideale (l’immaginazione esercitata dall’arte). In pratica l’artista intende tradurre dei concetti in oggetti. mettendo in contiguità il piano fenomenico con il livello neurologico, perché immaginare o vedere una cosa stimola le medesime aree del cervello. Durante la progettazione di FV +/- Space (Proliferation) D’Acquisto si è lungamente interrogato sul Materia! Unaccounted For [MUF], ossia il “materiale dì cui non si sa render conto”. Consapevolezza che l’ha indotto a non subire perdite nelle fasi di lavorazione: gli scarti prodotti dalla rifinitura di un’opera sono cioè serviti a implementare quelle successive. E poiché esistono leggi predeterminate e altre che sono dominate dal caso e dal caos, l’artista ha cercato di capire [da] dove [e da cosa] hanno origine le proprie opere; autocoscienza che sancisce un passaggio — pregresso e progressivo — in cui i materiali, o più precisamente i residui, sono stati rimessi in circolo virtuos0. La capacità delle opere di generarne altre, e la loro possibilità di espansione volumetrica, sono state sviluppate nel concetto di “proliferazione” che è alla base di questa mostra. Per comprendere tale nozione è necessario rievocare l’opera Permanent Eclipse, realizzata nel 2009, in cui un tronco d’albero era stato sezionato e ricomposto grazie ad articolazioni ferromagnetiche. Fatti i dovuti distinguo, l’installazione Strings (qui esposta per la prima volta) ne è la logica derivazione; ma piuttosto che modificare un modello preesistente, è proprio la diversificazione formale e concettuale a fare di Strings un clade e non un semplice clone. Potremmo dunque ricondurre il clade — parola greca che significa “ramo di albero” — al processo rizomatico che ha origine dal tronco utilizzato in Permanent Eclipse. Come accade nelle nuove opere di D’Acquisto, i dadi hanno origini comuni e sono la materia prima dei grandi cambiamenti evoluzionistici, e in questo caso anche artistici. Nell’installazione Strings è ripresa l’idea cardine di tutto il progetto: la proliferazione della forma che si appropria dello spazio, espandendosi in esso per definirne le parti. «Quando siamo in un ambiente vuoto», spiega l’artista, «ne percepiamo il potenziale inespresso. Le stringhe hanno la funzione di esprimere quel potenziale, raccordando le parti e formulando ipotesi sulla forma». Almeno idealmente, l’opera sembra rifarsi alla Teoria delle stringhe (principio secondo cui la materia e l’energia, ma anche lo spazio e il tempo, sono manifestazioni di entità fisiche primordiali) e che, sottoforma di un esoscheletro, intende rappresentare quellaTeoria del Tutto su cui si reggono le correlazioni concettuali dell’intera mostra.
Si tratta di una struttura che può svilupparsi all’infinito; come un Ouroboros o un moderno Laocoonte, questo work in progress sembra disegnare una traiettoria epidermica che connette, aderisce e si stringe sugli oggetti, rendendoli parte di uno “spazio organicamente strutturato” anziché di un semplice “ambiente genericamente definito”. Tra saliscendi e andirivieni, il cablaggio combacia e raccorda tra loro otto oggetti: un piccone, una forca, uno pneumatico, un tronco di eucalipto, una trave della galleria, un mobiletto antico, una poltrona degli anni sessanta, una cornice contenente un’immagine fotografica di Perda Liana. La foto dell’ imponente torrione dell’era giurassica, diventato simbolo dell’Ogliastra, è particolarmente significativa. Nell’immaginario dell’artista la conformazione rocciosa innesca un paragone con la Devils Tower che appare nel film Close Encounters of the Third Kind, stabilendo quella triangolazione tra scienza, sci-fi e arte (concepita come gaia scienza o scienza spuria) che è uno dei tratti salienti dell’artista e del suo spirito di ricerca, tipicamente sperimentale. Dalla cima di Perda Liana sono state inoltre scattate le fotografie panoramiche usate nella serie +/- Space. In questo caso la superficie delle stampe è stata parzialmente abrasa, occultandone alcune aree; l’artista ha in seguito elaborato una sintesi delle abrasioni e delle polveri generate, restituendo ai vuoti dell’immagine una dimensione oggettuale (come in un processo a ritroso, dal vuoto al pieno) mediante la sovrapposizione di strati di plexiglas retro dipinti. Per realizzare Dust PG8 l’artista ha invece sfruttato le polveri prodotte in studio durante gli ultimi sei mesi; depositatesi su 14 vetrini, le polveri sono state quindi analizzate con l’obiettivo di restituire loro tridimensionalità. In questa serie D’Acquisto ha nuovamente espresso il proprio interesse per gli astronauti, ì quali hanno ridefìnito il nostro sguardo sul mondo, spostandolo fuori dalla dimensione terrestre, “al di fuori della stratosfera” avrebbe detto Alberto Boatto (aggravando così il divario tra ciò che è reale e ciò che ‘è ideale). I ritratti d’astronauti sono stati scelti dall’artista in base all’anno della sua nascita, criterio che è ricaduto su un manipolo di piloti che la NASA selezionò per far parte del Group 8. Impossibile negarlo, ogni opera d’arte è sempre, inevitabilmente, un’appendice biografica: l’aspetto autopoietico e autobiografico di Dust PG8 si travasa dunque nell’èra spaziale —oltre che in grisaille e in sedimenti — trasformando i piloti in un suolo lunare, costellato di dune e crateri. I loro volti, visibili da lontano, da vicino diventano delle nebulose, paesaggi siderali e cinerei. La texture granulosa del plexiglas retro dipinto genera infatti dei microrilievi, causando un parziale oscuramento delle stampe lambda. In definitiva la massa corporea finisce per sfaldarsi in corpuscoli, pulviscoli, molecole, atomi… Ma se le effigi dei quattordici cosmonauti sembrano allignare in assenza di gravità, l’installazione +/- Space è subordinata ai princìpi della dinamica di Newton. L’installazione è composta da bicchieri, vasi e altri recipienti in vetro disposti su delle mensole fissate a parete. In base all’inclinazione dei ripiani, alcune sezioni di legno tornito aderiscono alla forma dei contenitori, come se del fluido opalino si fosse solidificato al loro interno. «Negative and positive aren’t good terms» sosteneva Ad Reinhardt, affermazione che trova concorde anche D’Acquisto nel momento in cui intende formalizzare un modello figurato, “il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto”, per verificare l’ambiguità esistente tra la percezione dello spazio positivo e dello spazio negativo. In questo lavoro l’artista mantiene un equilibrio tra il dato oggettivo (reale) e la sua rappresentazione, pone cioè in relazione un modello ideale con quello fisico: il paradosso del bicchiere rispetto alla dinamica di un fluido. La cromofobia di D’Acquisto si indirizza infine verso una delle matrici formanti del proprio lavoro, quei “deserti” che l’artista ha realizzato ininterrottamente dal 2009 fino a oggi. Come nei precedenti, anche in Desert (Dust) l’analisi del terreno presenta una specularità che conferisce ordine al caos dell’immagine, ma laddove l’approccio al lavoro era caratterizzato dal totale controllo formale, gli esiti sono ora [in]formati dalla casualità. Non dissimile da un astro desertico, l’artista usa quest’ immagine per raccordare le metodologie del passato a quelle del presente; sondando le possibilità palingenetiche e autopoietiche intorno alle ragioni della propria ricerca, l’artista ha indagato le relazioni tra gli aspetti semiotici e le estensioni tangibili del concetto di “spazio”. Passando dalla brulla pianura di Desert (Dust) all’altopiano di Perda Liana, D’Acquisto ci ha dimostrato che esistono tante dimensioni quante sono le coordinate. E benché due oggetti non possano occupare lo stesso spazio, è anche vero che le Strings creano un’unità sistemica, in grado di trasmutare l’intuizione in percezione, e la percezione in visione. Ciò accade anche nell’inclinazione (ma sarebbe più corretto dire “intenzione”) dei bicchieri e nell’astrazione (ossia nell’estrarre fuori dal reale per astrarre in senso universale) dei cosmonauti. Con un approccio analitico e tecnicista Daniele D’Acquisto ha scolpito la pittura e ha disegnato la scultura, trasformando l’arte in una scienza sperimentale. La particolare attenzione verso gli aspetti strutturali del proprio lavoro l’ha indotto a cimentarsi con questioni di carattere iconologico e formale, lambiccandosi soprattutto sul concetto di rappresentazione — intesa come analisi empirica della realtà — attraverso un processo di astrazione cognitiva che è in sé una rappresentazione della realtà stessa, la cui veridicità esisterebbe unicamente nel mondo delle idee. Vero e falso, causa ed effetto, positivo e negativo, origine e proliferazione… «ogni nuovo penetrare entro le forze che agiscono nella natura ha per l’uomo il significato di una nuova via aperta verso il dominio di essa» [Max Planck].
Intercettazioni – Tra Chiara Canali, Daniele D’Acquisto e Alberto Zanchetta
AZ > Credo sia fondamentale iniziare dalla fine, ossia dall’ultima opera realizzata da Daniele, quelle Strings che sanciscono il desiderio di riconquistare una totalità che l’umanità ha metaforicamente perduto dopo l’Età dell’Oro. L’installazione cui facciamo riferimento sancisce un sistema ordinato — e di coordinate autoriflessive, interne cioè al modus operandi di Daniele — entro una dimensione ineffabile, invisibile, che si stende intorno a noi; con quest’opera si è cercato di colonizzare lo spazio, non tanto disseminando degli oggetti nella galleria, ma cercando di pervadere l’ambiente e le cose stesse, ricorrendo quindi alla dispersione per ottenere una concentrazione. In questo modo vediamo le parti di un tutto ri-composto, una ricostruzione simbolica che determina materialmente le lontananze e le prossimità per stabilire un’unità (di misura?). Tenendo conto dei limiti e dei perimetri, Daniele ha cercato di dare una finitezza a ciò che non ne ha: il vuoto. In pratica ha agìto [in] uno spazio, rivelandolo, determinandolo non secondo la geodetica — che unisce due punti in modo lineare — bensì adottando un flusso tortuoso, un’elasticità che però sembra vulcanizzata, perché irrigidita nella forma dei profilati in legno. Alla maniera delle Strings, ritengo opportuno cercare di raccordare le sue due ultime mostre personali, che si sono svolte alla Gagliardi Art System a distanza di soli quattro mesi l’una dall’altra (e che Daniele ha definito come un “preludio” e una “proliferazione”), tenendo presente che i due momenti espositivi fanno in realtà parte di un unico progetto. Cerchiamo insomma di colmare i vuoti lasciati vacanti tra le due mostre, ovversiva sveliamo tutto ciò che non è ancora stato raccontato…
CC > La mostra Fl/ Prelude (Dust) è introduttiva e propedeutica all’esplosione espressiva che si rivela con FV +/- Space (Proliferation). Significativo è infatti il titolo scelto da Daniele per questa prima mostra personale: “preludio”, termine preso in prestito dal linguaggio musicale che generalmente fa riferimento a un brano piuttosto breve, senza forma codificata, suonato in maniera estemporanea prima dell’esecuzione del pezzo vero e proprio. Nella prima tappa espositiva Daniele aveva presentato l’installazione No Dolphin: una batteria di pentole sovradimensionate i cui incavi sono stati riempiti con profili in legno che ricalcano le forme di residui di liquidi posti precedentemente nelle pentole inclinate. Questo lavoro introduce in maniera libera e non codificata il tema che sarà predominante nella tappa successiva Proliferation con l’installazione +/- Space, composta da bicchieri, vasi e altri recipienti in vetro disposti su mensole che, in base all’inclinazione dei ripiani, presentano delle sezioni di legno che rimandano alla quantità di fluido solidificato al loro interno (“il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto” come ricorda Alberto).
La seconda installazione, che è uno sviluppo e una continuazione della prima, insiste sul tema del “residuo”, dello “scarto” che si ricollega al tema delle polveri da cui prendono origine gli stati della materia e che informano tutta la produzione recente dell’artista. Lo scarto è messo in primo piano nell’installazione Give Up The Ghost dove un certo quantitativo di polveri di legno è applicato sulle rugosità del muro e del pavimento. Il significato pieno di questo mare di polveri, di questa polverizzazione, residuale della lavorazione dell’opera Strings, diventerà esplicativo solo in-un secondo momento, ma nel frattempo è già allusiva ed evocativa, ben più di un’opera compiuta.
DD > In effetti una delle costanti di questo progetto è nel recupero degli scarti di lavorazione…avevo intenzione di non escludere dall’opera finita, che per me è un dato oggettivo, quella parte del lavoro che rimane nascosta; mi riferisco a quanto accade in studio durante le fasi di produzione. Il legame che unisce i due momenti di questo progetto è determinato proprio dall’esigenza di mostrare quali e quante siano le interconnessioni concettuali e oggettuali tra i prodotti della mia ricerca. Il riferimento alla polvere (esplicitato nel titolo che ho scelto per il preludio) deriva dalla necessità di comunicare quanto accade prima che un lavoro venga inserito nel proprio habitat. In questo senso lo scarto rappresenta la dimensione originaria dell’opera; come evidenzia Chiara, nel preludio ho deciso di impiegare — con l’installazione Give Up The Ghost— una parte dello scarto di lavorazione di Strings, nella misura corrispondente al mio peso corporeo, lavoro che sapevo di dover presentare in seguito. Il riferimento alla proliferazione (nel titolo della seconda parte del progetto) è sia in rapporto alle interconnessioni tra lavori che hanno una matrice comune, che in relazione all’installazione Strings. Direi, quindi, che “origine” e “proliferazione” sono i due nodi di questo progetto che indaga il concetto di “spazio”, articolato nelle diverse declinazioni (siano esse ideali o fisiche) che un ragionamento strutturato può determinare.
CC > Alberto precedentemente parlava di “disseminazione”, “dispersione”, “colonizzazione dello spazio”: credo siano oggi termini fondamentali per la storia dell’arte contemporanea che si adattano perfettamente alla ricerca di Daniele. L’uso del termine è antico e risale, guarda caso, all’anno di nascita dell’artista, il 1978, quando Filiberto Menna lo impiega per intitolare la mostra Disseminazione. Nel 2009 Giorgio Bonomi riprende questa teoria e scrive un libro intitolato La disseminazione. Esplosione, frammentazione e dislocazione nell’arte contemporanea, dove sottolinea l’importanza della frammentazione e della disseminazione di “segni” e forme artistiche che tendano a con/ fondersi, così da mostrare “la scultura in cammino verso la pittura” e “la pittura in cammino verso la scultura”, ed entrambe “verso l’installazione”. Come non vedere in questa teoria un’anticipazione del progetto di Daniele, dove frammento e unità concorrono a ridefinire lo statuto complessivo dell’opera d’arte, e il “reperto” permette di dare nuova forma alla totalità dell’opera, secondo quel principio per cui “uno più uno non fa due” ma un’unità di misura maggiorata e accresciuta.
AZ > Personalmente concepisco FV Prelude (Dust) e FV +/- Space (Proliferation) come un atto di [ri]fondazione da parte di Daniele. Credo anche che l’immagine di Perda Liana sia particolarmente emblematica di questa sua urgenza: è una sorta di pietra miliare, nel senso che marca una distanza rispetto al passato e al contempo indica il percorso del presente. Vorresti parlarci più dettagliatamente di questo monumento naturale, del perché ti sei recato nell’Ogliastra e come mai sei entrato in contatto con una presenza (che definirei) “totemica” non solo per il tuo lavoro ma anche per te stesso — per i tuoi ricordi e le suggestioni che hai accumulato nel corso degli anni?
DD > Riprendiamo il discorso da Strings, perchè è un lavoro che si interroga su diverse questioni simultaneamente; è un sistema per formalizzare ed ipotizzare lo spazio; è un tentativo di rendere organica la nostra percezione del reale. Ma è anche un sistema che può evolvere all’infinito e assumere una forma differente a seconda delle condizioni contestuali. La cornice che contiene l’immagine di Perda Liana è il primo degli oggetti coinvolti in questo lavoro… direi l’origine. Il primo contatto visivo con questo mastodonte è avvenuto casualmente mentre ero nell’Ogliastra in viaggio con dei miei carissimi amici… dietro alcune colline è apparsa questa immagine. La cosa era in sé sorprendente, tanto più se si considera il fatto che ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a qualcosa di familiare; mi aveva istantaneamente richiamato alla mente la Devils Tower usata da Spielberg nel film Close Encounters of the Third Kind. Sprigionava una attrazione che definirei magnetica… penso che la medesima intuizione sia stata percepita e restituita da Kubrik col “monolite” di Space Odissey. In definitiva sentivo di non poter rinunciare a recarmi fisicamente sul posto, e man mano che ci avvicinavamo mi era sempre più chiaro che quella formazione mi attraeva perché, in mezzo al “nulla”, era l’unica cosa che poteva generare analogie cognitive con l’idea di un “manufatto”.
C’era un equilibrio assoluto tra l’oggetto, il suo contesto e quello che nel mio immaginario rappresentava. Credo che questa riflessione mi abbia permesso di trovare il modo di raccordare la dimensione (indipendente) del lavoro con quella del reale.
CC > In questo viaggio di Daniele ritrovo il viaggio di formazione dell’artista che va alla scoperta dell’origine delle cose, dell’archetipo magico, dell’epicentro dello spazio e della “porta sacra” verso mondi paralleli. Una leggenda della zona racconta infatti «A sa Perda ‘e Liana su hi heres ti dana!» (A Perda Liana quel che chiedi ti viene dato!). Un viaggio dunque reale per riconquistare il senso e la saggezza delle idee, per rifondare le cose con un’architettura che le informa e le contiene (la Stringa), per riconquistare un’estetica che sia anche etica (intesa come ricerca delle basi dei comportamenti e delle intenzioni delle azioni, delle motivazioni e dei principi che ispirano l’azione), ai princìpi di una natura che è anche cultura. Un’azione etica quale processo intellettuale che tende a dare vita a un organismo integrato, dopo un’azione di destrutturazione e svelamento rispetto a quanto ha scoperto, in rapporto all’esistente e alla quotidianità.
AZ > In realtà non si riesce mai a chiudere un cerchio, lo si può solo espandere, oppure si è costretti a generarne uno nuovo. Ad esempio: in FV +/- Space (Proliferation) sono presenti dei lavori che sembrano fare da eco a opere precedenti. Guardando Strings è impossibile non ravvisare una parentela con l’installazione Permanent Eclipse, mentre i bicchieri di +/- Space potrebbero essere una conseguenza dei secchi di Out of Time e delle pentole di No Dolphin. I ritratti degli astronauti selezionati nella serie PG8 sembrano invece raccordarsi ad alcune delle White lcons, in particolar modo a quelle di Yuri Gagarin, Harrison Schmitt e Neil Armstrong. È come se FV +/- Space (Proliferation) volesse sancire un legame con gli ultimi cinque anni di lavoro — è il caso anche del grande Desert (Dust) realizzato per l’occasione — ma allo stesso tempo tenta di proiettarsi in una dimensione differente, completamente inedita. E così facendo si porta dietro tutta una serie di incognite… Rifacendomi all’immaginario di Daniele sarei tentato di parafrase Armstrong, il quale aveva pronunciato la celebre frase That’s one small for a man, one giant leap for mankind durante l’allunaggio del 1969; potremmo cioè dire che per un artista è sempre necessario fare un piccolo passo — one step after another— per poi trovarsi sbalzati altrove.
DD > Dato che questa è anche una riflessione presente nel tuo testo, vorrei aprire una piccola parentesi in merito alla specifica relazione tra Permanent Eclipse e Strings… diciamo che sono molto interessato alla risoluzione delle problematiche tecniche della forma in relazione a quanto gli esiti possano risultare funzionali alle dinamiche del lavoro… in Permanent Eclipse ho utilizzato un sistema magnetico, per ricongiungere le singole sezioni del tronco, in grado di evidenziare la possibilità di modifica della forma, ed in Strings degli innesti maschio-femmina che sottintendessero il potenziale espansionistico dell’installazione. In effetti quando ho letto il tuo testo, l’idea dei “cladi” mi è sembrata davvero calzante perché credo individui esattamente un peculiarità della mia ricerca; all’analisi e alla conseguente sintesi evolutiva del piano formale di un singolo clade, corrisponde una modificazione dei termini concettuali del lavoro… la mia ricerca credo dimostri come anche alla più piccola variazione delle condizioni “linguistiche” di una matrice, corrispondano nuovi presupposti sostanziali. Questo approccio al lavoro esiste sia in questi termini (nelle relazioni che intercorrono tra le matrici e le evoluzioni di esse), sia nelle dinamiche interne al singolo lavoro (nella misura in cui all’osservatore attribuisco il compito di completare certe sue caratteristiche)…pensa ad esempio a quanto accade in Waiting For…La novità della ricerca recente è in definitiva nella consapevolezza dei mezzi di cui dispongo. Razionalizzare un’idea, riuscire a fare un processo di astrazione sistematica, credo sia il primo passo per poterne esprimere tutto il potenziale; paradossalmente sono queste nuove modalità operative che mi concedono, ora, di contemplare anche la dimensione del caso.
AZ > Con il vostro aiuto analizzerei ora la struttura di questo catalogo, che reputo non meno importante del materiale che contiene. La successione delle opere non è stabilita secondo un criterio cronologico, ma viene suddivisa in base alle mostre personali di Daniele, seguendo un percorso a ritroso nel tempo, che dal 2012 risale al 2007. La trovo una scelta molto particolare ed efficace, perché non si limita a documentare i vari lavori ma ci informa anche del modo in cui hanno dialogato tra loro, a quale “corpo d’opera” appartenessero. Ciò permetterà al lettore di individuare (ed eventualmente isolare) le singole opere, oppure di identificarle in un preciso contesto — espositivo e concettuale. Questa modalità non è certo nuova, ma non è neppure una consuetudine; per tali motivi ritengo necessario discutere con voi sulla scelta, oltre che sull’efficacia, dell’approccio usato in questa pubblicazione, che al momento si pone come un “catalogo ragionato” dell’attività di Daniele.
DD > Il catalogo presenta i testi e le immagini di lavori relativi a quattro specifici progetti. In queste sezioni si possono individuare i lavori effettivamente interessati nella singola mostra sia opere cronologicamente successive, ma appartenenti alle serie coinvolte nello specifico progetto. In una prima fase si erano considerate ipotesi di organizzazione differenti che però risultavano rischiose sul piano della chiarezza, vista la complessità del lavoro. Pur essendo convinto che il catalogo dobla avere una funzione prevalentemente didattica, non amo qual cataloghi con una impostazione didattica o con un approccio didascalico. Credo che per una comprensione profonda di un Immo sia necessaria una sensibilità e una disposizione da parte dall’osservatore, o del lettore, perché si creino le condizioni ottimali per veicolare tutte le informazioni necessarie… mi riferisco anche a quelle non scritte e non osservabili.
AZ > Dunque, potremmo anche dire che le opere e le loro riproduzioni fotografiche si pongono gli stessi obiettivi della prossemica?
DD > Non direi proprio in termini così specifici; più che altro parlerei lariericamente di semiotica, in particolare di un forte interesse verso le dinamiche che il lavoro innesca in termini di significazione e comunicazione. Di solito nei miei lavori parto da un’analisi empirica della realtà e dalla possibilità di trasformare i suoi principi fisici in rr ratti in grado di esprimere significati… il catalogo deve supportare questa logica.
CC > Oppure, a proposito del processo artistico visualizzato dal catalogo, parlerei di prospettiva semio-pragmatica (cosi’ come la delinea lo studioso GIRA:), tracciando una distinzione nella comunicazione tra significato naturale e convenzionale, in relazione all’intenzionalità di voler dire qualcosa da parte del parlante (in questo caso l’artista) a qualcun altro. Il successo di questa comunicazione si fonda sul principio di cooperazione (o collaborazione), owero nel saper dare il proprio contributo in riferimento a quattro categorie che riguardano: Quantità, Qualità, Relazione, Modo. fritte caratteristiche evidenziate nel lavoro di Daniele. In considerazione del fatto che la ricerca di Daniele rende concomitante presente e passato all’interno di un lavoro che mostra continue relazioni, incroci, contaminazioni e attraversamenti, dove ogni opera si disvela alla luce della tappa successiva, il catalogo stesso deve dare l’idea di questa contemporanea simultaneità, della continuità e discontinuità del lavoro.
La compresenza di pittura, scultura, installazione, che all’inizio sembrava rispondere ad esigenze intime ed estrinseche, ora assume tutto un senso alla luce della continua riflessione sull’ontologia del linguaggio e sulle possibili declinazioni di un codice visivo all’interno di una pluralità di mezzi tecnico-formali, accomunati e impregnati, in ultima istanza, dall’idea del residuo. La libera associazione delle immagini e il parallelismo tra logiche percettive differenti, permette di restituire il senso completo del lavoro, al di fuori di una logica sistemica e catalogatoria. Anche in questo contesto, il rimando evocativo tra le icone e la reminiscenza fotografica degli ambienti visivi e spaziali, pervasi dall’idea della disseminazione, è più efficace a tradurre un’idea della pura successione cronologica dei lavori.
AZ > La gran parte di queste opere tende al monocromo, a uno spazio in-colore, intermedio: il grigio, gradazione che alcuni accusano di aver “tristemente colorato” l’epoca moderna. Penso al cemento, all’acciaio ma anche alle pietre e alla polvere. Grigia è la routine, e completamente grigio è il mondo descritto da Cormac McCarthy nel suo romanzo apocalittico, The Road. Viene quindi spontaneo chiedersi da cosa dipenda questa tua grisaglia… Ho inoltre notato che nei tuoi precedenti cataloghi avevi completamente abolito la stampa a quattro colori, usando solo i mezzi toni del nero; questa volta, però, hai deciso di includere delle fotografie a colori, soprattutto per dare risalto alle diverse gradazioni del legno, materiale (naturale, vivo, caldo) che tende a contrastare l’aspetto algido e asettico delle opere più recenti. Indizio — ennesimo e nient’affatto trascurabile — di un ripensamento della tua pratica artistica.
DD > Sono contrario all’uso del colore a meno che non esistano ragioni valide per impiegarlo; credo che il colore possa veicolare valori emozionali che nella mia ricerca rappresentano un ostacolo alla comunicazione; l’uso del legno, ad esempio, è subordinato ad un procedimento di sbiancatura che mi permette di attenuarne la colorazione naturale e farlo tendere alla neutralità. Nei cataloghi chiedo che le immagini vengano riprodotte in bianco e nero perché il catalogo deve sottolineare le peculiarità del lavoro; derogare a questo principio credo sia stato necessario data l’impossibilità, in caso contrario, di documentare il rapporto tra i materiali… mi riferisco ad esempio alla relazione tra la plastica e il legno: il primo è un materiale “clinico”, mentre il secondo vive, si muove. Sono d’accordo con te quando fai riferimento a un ripensamento della pratica artistica perché, come accennavo poc’anzi, credo di averne semplicemente razionalizzato i limiti, e questo mi permette di superarli. Porsi le domande giuste, ma soprattutto nei giusti termini, penso sia “l’obbiettivo” per ogni artista.
CC > Dal mio punto di vista credo che il grigio sia un colore, la cui cromia è declinabile tra le varie percentuali del bianco e del nero. Addirittura il grigio neutro si può ottenere mescolando uguali quantità di colori primari (giallo, rosso e blu). Inoltre uno dei tuoi ultimi lavori, Give Up The Ghost, presentava le polveri di legno residuali dalla lavorazione delle opere di una intensa cromia marrone rossiccia che lascia forse presupporre una futura curiosità nei confronti di nuove tonalità naturali. D’altra parte dopo l’algido azzeramento del bianco e del grigio, che è rapportabile all’utilizzo di tecniche più industriali e artificiali, come il plexiglas e l’acrilico, il continuo interesse nei confronti del legno quale materiale “vivo”, duttile e plasmabile, a partire dalle tracce sonore quali GoRe, oppure a lavori come Out of Time e Permanent Eclipse (dove però il legno era spesso sbiancato), apre a nuove prospettive e, come dici tu, Daniele, ti permette di superare certi limiti formali, in ragione di una più ampia forza comunicatrice racchiusa nella qualità dei tuoi lavori e nella modalità con i quali si relazionano tra loro, anche nelle pagine di questo catalogo.
DD > In effetti basta poco a determinare modificazioni sostanziali in una ricerca. In generale direi che ho sempre lavorato in un perimetro in costante espansione; ci sono dei paletti entro i quali bisogna tenersi per evitare divagazioni improduttive… poi c’è il momento in cui, a volte intenzionalmente, altre casualmente, all’interno di quel perimetro intervengono elementi che dall’esterno ne modificano l’assetto, offrendone una nuova visione.
Polverizzazioni – Chiara Canali
La ricerca che Daniele D’Acquisto conduce in questi ultimi anni è volta a sondare lo statuto dell’immagine rappresentata, dal punto di vista iconografico e iconologico, esplorando la dialettica e l’arbitraria associazione tra concetto e immagine linguistica, tra significato e significante (per dirla alla Ferdinand De Saussure). Questa indagine viene attuata attraverso la messa in campo di una pluralità di mezzi dl produzione tecnico-formali che suggeriscono l’aleatorietà dei codici visivi e la possibilità di costruire logiche percettive diverse a partire da considerazioni sistemiche del linguaggio incentrate su modellizzazioni «rate. È il caso del nuovo progetto dell’artista intitolato F-V sviluppato In due distinti momenti. Il primo, F-V (Prelude), introduce la più recente produzione avviata nell’ultimo anno e mezzo di ricerca che fa tie premessa e anticipazione alla fase finale e complessiva del lavoro (Proliferation) che verrà presentata nell’Aprile 2012. Come afferma l’artista stesso: “il progetto raccoglie gli esiti di una ricerca che indaga, nella prima parte, la genesi della forma come scintilla primordiale di una ricerca, e nella seconda parte la capacità palingenetica, autopoietica, della ricerca stessa di autoalimentarsi, di proliferare”. Punto di partenza per la genesi del progetto è una riflessione sul concetto di polvere (Dust): la polvere è legata indissolubilmente sia al tempo che allo spazio, perché satura lo spazio e si accumula nel tempo, come materialità minima che si deposita e mostra nella sua spazializzazione iI trascorrere del tempo. Nel corso della storia dell’arte, la polvere è stata fonte di riflessioni e rappresentazioni fin dal Quattrocento quando Leonardo Da Vinci la descrive e analizza perché è una di quelle sostanze che alterano la percezione con effetti particolari di proporzione, quantità, luce, oscurità. Un grande maestro secentesco delle polveri è Evaristo Baschenis; con lui la polvere entra come materia autonoma nella pittura, con tutte le conseguenze che comporta. Ma arrivando al Novecento, è sicuramente con Marcel Duchamp che il discorso sulla polvere assume contorni nuovi e imprevedibili. II riferimento corre all’opera nota come il Grande Vetro, ripresa e fotografata da Man Ray con il titolo Allevamento di polveri. L’immagine mostra infatti il deposito, l’”allevamento” di polveri sulla parte inferiore del vetro dove compare la superficie opaca e grigia, ricca di effetti di luci e di ombre, il cui piano solcato di segni, linee e tracciati, assomiglia a un “paesaggio”. In questo gioco tra apparenze e realtà, Daniele D’Acquisto individua l’andamento della polvere sia in termini fisici, di contatto, che in termini psichici, attraverso il suo discorso linguistico e mediante le sue proiezioni con cui (psico)analizza il processo di polverizzazione con forme a rilievo, scultoree e installative.
I lavori presentati in mostra sono quattro: due carte della serie Dust, la scultura No Dolphin; l’installazione site-specific Give Up The Ghost di dimensioni ambientali. Le serie Dust è caratterizzata da microrilievi su carta, generati dalla sintesi di immagini fotografiche relative a paesaggi desertici sabbiosi (già indagati in precedenza); la peculiarità di questi rilievi è di rendersi visibili anche in assenza di una adeguata illuminazione perché sottoposti a un procedimento di sedimentazione di polveri di alluminio mescolate a smalto che per effetto della forza di gravità si depositano sulla superficie delineandone le zone in ombra e quelle in luce. Al limite della visibilità, la polvere è l’invisibile che rende la materia visibile, la circoscrive e indica che esiste ancora qualcosa al di là delle possibilità della percezione, sotto la soglia delle capacità dei sensi. L’installazione No Dolphin è un remake della nota opera “Dolphin” di Jeff Koons; nella versione di Daniele D’Acquisto è sparito il delfino gonfiabile mentre la parte sottostante è stata rielaborata sovradimensionandone gli elementi (pentole, mestoli, padelle ecc…) e riempiendone gli incavi con profili in legno che ricalcano le forme di residui di liquidi posti precedentemente nelle pentole inclinate.
Sul piano iconologico, all’opulenza consumistica dell’originale, il remake No Dolphin contrappone una forte semplificazione formale che coincide con l’idea di residuo sulle superfici degli oggetti stessi.
Questo passaggio “al limite” della materia, tra stato fluido e stato solido, corrisponde allo stato pulvirulento perché la polvere, essendo composta di granuli, assume come un fluido la forma degli oggetti su cui si posa e, al tempo stesso, essendo solida ne rende visibile un volume sferico. L’installazione site specific Give Up The Ghost viene realizzata direttamente sull’estensione di una delle pareti bianche al secondo piano della galleria. L’artista ha ideato una nuova pigmentazione lasciando depositare un certo quantitativo di polveri di legno sulle rugosità del muro. La polverizzazione qui utilizzata è residuale della lavorazione di una delle opere che verrà presentata in Aprile in galleria, quale anticipazione del concetto precedentemente espresso di proliferazione e autopoiesi. Per la sua natura “quantica” la polvere è un materiale impalpabile che si dissemina uguale, per strati sottili, sulla superficie di oggetti e di spazi ambientali, fino a farne un calco finissimo e a definirne un’altra immagine che è la forma in negativo di quella originale. Proprio come sostiene Paolo Barone, nell’Età della Polvere, “della polvere viene messo in evidenza il carattere di ‘materiale inerte’, ricettivo, che non è niente e insieme è aperto a tutte le forme, a tutti i segni, strato residuo che può conservare l’impronta di tutto ciò che metaforicamente è stato senza aver nulla perduto, come un immenso deposito o un’immensa matrice virtuale di ricostruzione”.
In tutto questo percorso dell’artista emerge il discorso di definizione dei concetti di spazio pieno e spazio vuoto, spazio positivo e spazio negativo inteso in tutte le sue accezioni, dalla delimitazione di uno spazio all’estensione dello stesso: tutto diventa non solo luogo di esposizione, ma spazio fisico lasciato vuoto per possibili tracce pulvirulente, per possibili impronte di materie polverose che a loro volta non fanno che delineare un luogo dove qualcosa è accaduto per qualche tempo. È una strategia dell’assenza, del vuoto, della sottrazione, di cui viene esibita la traccia, la presenza spaziale dalla polverizzazione. Un vuoto di spazio e insieme una presenza potenziale, una sorta di spazialità più tattile che visiva, un’energia invisibile ma percepibile in potenza. I lavori in mostra, come quelli della serie precedente, rimandano sempre a una costante: l’indagine della zona liminale che separa la realtà dalla rappresentazione a partire da una riflessione empirica. La ricognizione sul dato oggettivo e fisico del reale induce l’artista a un processo di astrazione cognitiva e poetica che è già di per sé una rappresentazione del mondo.