UNA SOLA MOLTITUDINE – Laura Cherubini
“La moltitudine è come una singola carne che rifiuta l’unità organica del corpo”
Michael Hardt / Antonio Negri
Una premessa
La luce di una lanterna ci introduce nel buio ventre della capanna, cellula abitativa, dove un piccolo gruppo, nucleo familiare, è disposto secondo una forma circolare cui conferisce un ritmo il movimento delle mani entro cui passa un oggetto transazionale, primordiale eiernento che alimenta la vita. “Qui sotto ho abbozzato due schizzi relativi agli studi già fatti stila composizione di quei contadini intorno a una mensa con un piatto di patate, proprio ora sono tornato dall’esecuzione del lavoro compiuta nella capanna alla luce di una lanterna, benché lo studio dello stesso dipinto sia stato fatto di giorno”. Vincent Willem Van Gogh ha appena perso il padre e scrive al fratello (con il quale riprende un rapporto dopo un raffreddamento) a proposito di una delle sue opere più importanti, capolavoro del periodo di Nuenen. La perdita del ruolo paterno ha come conseguenza l’abbandono della casa familiare e costringe l’artista a spostare la dipendenza (psicologica, ma anche economica) sul fratello Théo e forse non è un caso che in quel momento di lutto l’attenzione teorica si concentri sugli elementi della casa e della cena. Il denaro è tema alimentare per eccellenza. In una curiosa inversione a chiasmo Théo assume su di sé il ruolo economico dello zio Vincent, il giovane Vincent aspira al modello spirituale del padre, il pastore Theodorus. “Il fatto che nella composizione vi sia un’unica mensa comune dalla quale i contadini prendono il cibo introduce di per sé l’idea della fratellanza: la nutrizione come postulato costitutivo di carattere primario trova riferimento nel simbolo rituale della comunione, la fractio panis” (Maurizio Bonicatti). Ma la più straordinaria mutazione genetica del capolavoro di Van Gogh sta nella trasformazione a vista dell’iconografia della capanna e della mensa nella simbologia della grande madre, la terra: “Quando avevo già eseguito le teste con una finitura molto accurata ho deciso senza esitazione di ridipingerle, e non me ne pento: ora la pasta cromatica della nuova stesura potrebbe corrispondere al colore di una patata appena estratta dalla terra, beninteso non sbucciata. E durante questo lavoro mi sono ricordato ancora una volta di ciò che si dice giustamente delle figure contadine di Millet: “I suoi contadini sembrano dipinti con la medesima terra che essi seminano.” scrive in una nuova lettera del maggio 1885 Vincent a Théo.
Il territorio della mente
Da principio Giuliana Cunéaz ci aveva portato in un mondo incantato. Con Il silenzio delle fate (1990) infatti ci aveva portato in ventiquattro luoghi legati alle apparizioni degli esseri magici sul filo dei ricordi delle persone. Una musica appositamente composta ci accompagnava in situ, laddove la postazione era segnalata da ventiquattro leggii in ferro e in marmo. Anche lì però, a ben vedere, accanto all’aspetto antropologico, ai temi della memoria, dell’infanzia e della favola, l’attenzione era mirata sul perché e sul come questi sogni si producono, sui processi di formazione dell’immaginario. “Mi riferisco soprattutto ad alcune zone di montagna che considero ‘luoghi di rapimento’, spazi vitali capaci di liberare la nostra “conscience revante” e di potenziare i canali di percezione che ci relazionano con la parte intima di noi stessi e con la natura” dice l’autrice in un’intervista di Antonella Crippa “Lavoravo sul versante dell’immaginario, interessandomi soprattutto a ciò che la nostra mente era in grado di produrre come ‘materiale’ non visibile, cioè a tutte quelle creature concepite dall’immaginario umano e riconosciute dalla collettività, attraverso i miti, le leggende, i simboli e le credenze popolari”. Il lavoro di Giuliana Cunéaz ha infatti fin dall’inizio relazioni con il mondo della scienza, rapporti che poi si sono andati rafforzando. Questo rapporto infatti emerge in primo piano nel 1993 con In corporea mente dove l’artista parte da documenti scientifici. Il territorio della mente Giuliana Cunéaz aveva iniziato ad esplorarlo già nelle prime sperimentali opere all’Accademia Albertina di Torino realizzando coni in materiale fotosensibile attraverso cui registra i movimenti delle stelle (Archeoptetyx). Si tratta di camere oscure fuori specchianti in cui l’immagine entra attraverso un forellino per essere vista rovesciata all’interno secondo una cinematografica inversione. Da allora l’artista non riesce più a rinunciare al movimento e a tornare all’immagine statica. Alla fine degli anni Ottanta è impegnata a catturare le fuggevoli ombre di creature dell’immaginario (come saranno poi le fate), gli Angeli, muovendo dall’idea di sottrazione della luce. Nel 1992 su una stele molto alta aveva posto una frase di Silesius “La rosa è senza perché. Fiorisce perché fiorisce”. Si interroga sulle produzioni del nostro cervello che traduce in Ninfee di materiale plastico retroilluminato; in una angiografia puoi veder pulsare un albero, perché dentro di noi ci sono cose che assomigliano agli elementi vegetali. “Che il corpo umano possa essere o diventare un mezzo espressivo o addirittura il ‘materiale costruttivo’ di un’opera d’arte lo sapevano bene le antiche civiltà tribali, i seguaci delle `arti marziali’ giapponesi, gli interpreti delle danze mistiche indiane” scrive Gillo Dorfles e prosegue a proposito di Cunéaz “l’artista ha afferrato l’importanza che riveste una rappresentazione “dal vero”- e “dal vivo”-d’un evento o di un distretto corporeo provvisto dei suoi ritmi, delle sue funzioni, dei suoi “palpiti vitali”. Del 1995 è la videoscultura Biancaneve fatta di fiori di petali bianchi in materiale plastico che celano all’interno un cuore che pulsa, in forma di giaciglio. Corpus in fabula (1996), ultimo lavoro con il materiale plastico, è composto da quattro monitor, Pneuma capta il soffio vitale in un angiografia polmonare: immagini di carne quasi prive di carne. Nel 1998 Offrande du coeur è un lavoro più giocoso che comprende una grande scultura carillon.
Fuori dal sé
Dal 2000 prendono avvio i lavori sui gruppi e quelli sui processi creativi e i meccanismi del pensiero visivo. Cunéaz, come nota Alberto Fiz, mette lo spettatore di fronte “alle pulsazioni, al respiro e ai liquidi corporali che lasciano la caverna misteriosa in cui generalmente sono relegati per imporsi al centro della rappresentazione”. Ma, come aggiunge Sabrina Zannier, “L’opera non è data esclusivamente nel corpo finito, non è più un’entità univoca; si manifesta nel processo che la genera, tanto da poter affermare che la processualità stessa si fa opera d’arte”. Il cervello nella vasca (2000) è un esperimento in cui l’artista stessa è la cavia: cercare di capire come nasce un’opera e come si arriva all’unità, da quali suggestioni nasce questa voglia di manipolare immagini. L’artista decide di affidare input differenziati a parti diverse del proprio carattere. Ne conseguono opere che non hanno completezza se non in relazione con gli altri elementi che l’artista denomina fenotipi. Se siamo una moltitudine perché arrivare sempre a una unitarietà? In altri termini, perché, se accettiamo la poetica definizione dell’uomo di Fernando Pessoa, una ma sola moltitudine, mettere l’accento sull’aggettivazione (una sola) e non sul sostantivo (moltitudine)? E se cercassimo di non arrivarci a quell’unità, per vedere se ci sono altre possibilità? È in questo momento che inizia a interessarsi agli stati di coscienza e al fenomeno della trance. Ed è la preparazione del video sugli stati di coscienza che porta Giuliana Cunéaz a frequentare certi gruppi. “Più che ad una rappresentazione ci troviamo davanti a uno stato d’animo” (Antonio Arevalo nel catalogo Officine pastello, Aosta 2000). Lavorando sulla trance si avvicina agli sciamani (entrano in un oltre che rendono percepibile anche ad altri) o per l’interesse al fenomeno della trance di regressione contatta Rolando Toro, psicologo cileno fondatore della biodanza: “con sequenze video, girate durante i laboratori di “biodanza”, ho creato delle curiose officine dell’affettività dove si generano profonde emozioni che transitano”. Transire del 2001 è un video che presenta in primo piano volti con un taglio ravvicinato in stato di trance. Riguarda fenomeni come la schizofrenia, l’ipnosi, gli esercizi di respirazione (necessari per sbloccare la trance). “Dove sei quando non sei presente a te stesso?” si domanda l’artista. Anche Domina ludi (2003) riguarda fenomeni legati alla presenza di una figura-medium. Nel 2003 Cunéaz presenta da BnD a Milano Turbe celesti su tre megaschermi, un video girato sulla provvisoria collettività di “nuovi visionari” in un rave party (erede di riti sciamanici, culti di Dioniso, vudu, e sabba medievali) a Basilea. L’artista è sempre interessata all’uscita dal mondo cosciente e al transito verso dimensioni altre. C’è poi il lavoro sui punkabbestia, piccola comunità selvaggia, un branco che abita la Milano capitale della moda e del design. All’artista ricordano la disposizione di un presepe ed è per questo che costruisce una capanna “metallara”. Si tratta in realtà di piccoli gruppi di origini culturali diverse, in parte minati da droghe, sui quali è molto scarsa la documentazione. Gruppi non violenti, vivono di elemosine, ma privi di ideali che non siano quello di un vago ritorno al primitivismo, simboleggiato dalla presenza animale dei cani: “sono figure pressoché immobili nella città in movimento, destinate, con la loro presenza, a creare un senso d’inquietudine e di perenne straniamento”. Dello stesso anno è Terrains Vagues alla Play Gallery di Berlino. L’opera è dedicata al contesto urbano e ambientata in uno di quegli spazi del centro città, lacune che ora si cerca di colmare, un campo vuoto che diventa quasi un giardino zen. Cunéaz fornisce un rastrello a cinquanta persone e ad alcuni chiede di portare un oggetto caro da sotterrare. Ed ecco le persone, accompagnate dalla musica di un gruppo tedesco, usare i rastrelli ognuno in modo diverso, seppellire e dissotterrare oggetti, tentare di cancellare la traccia che però trova sempre persistenza e non scompare mai fino in fondo. Un lavoro sulla memoria individuale e storica nella città che forse ne porta maggiormente le
tracce nel proprio volto. Anche questo lavoro, che la stessa artista definisce memorie del sottosuolo (Dostoevskij), parte dalla consapevolezza che l’individuo è una moltitudine. Quantum Vacuum (presentato dalla Gas alla Fiera di Bologna del 2005) si basa su immagini prese dal mondo quantico: ingrandimenti di invisibili atomi che interagiscono con il personaggio vuoto, pieno di energia. In 3D vengono ricreate le immagini di un personaggio, a metà e a testa in giù che esce dalla bocca demoniaca in uno degli affreschi di Giovanni da Modena (1410) della Basilica di San Petronio, e delle sensazioni attraverso cui passa.
Il tavolo mutante
Dedicata ai Mangiatori di patate di Van Gogh è la videoinstallazione con uno schermo circolare con persone che mangiano patate attorno a un tavolo. La luce calda e morbida contrasta con gli accadimenti del tavolo in continua metamorfosi. Per spiegare differenze e affinità tra le proprietà di curvatura dell’universo descritte dalla geometria di Riemann e la nozione di geometria quantica, Brian Greene in L’universo elegante ricorre alla metafora del tappeto elastico. Questo tavolo mutante si comporta in un certo senso come un tappeto elastico. L’idea nasce dall’umore melanconico del quadro di Van Gogh. In quel contesto c’è la fatica dei contadini che consumano il “cupo e miserabile” pasto, qui c’è l’inconsapevolezza del mondo mentre tutto si trasforma e le patate divengono altro. “Sono frutti impazziti, frutti che non conoscono più la terra per questo i loro germogli tendono altrove”. La patata è un alimento primordiale su cui l’artista proietta problemi che viviamo ora, come le manipolazioni genetiche.
Così la patata, le cui caratteristiche sono nutrimento, semplicità e non particolare bellezza, subisce inquietanti modificazioni che la rendono ora preziosa, ora velenosa. Nell’Angelo sterminatore (1962) di Luis Bunuel gli ospiti non riescono a superare la soglia della sala che li accoglie per una claustrofobica cena, nel successivo ll fascino discreto della borghesia (1972) il gruppo di persone continua ad andare, a camminare per chissà dove, e a darsi appuntamenti gastronomici che vanno puntualmente a monte, in ogni caso la classe borghese continua a produrre plusvalore e la metafora del cibo a tenere banco. “Mangiare insieme le patate è un rito”: come nel quadro di Van Gogh anche qui il cibo viene assunto con le mani in quanto soddisfazione di un bisogno primario. In questo video di Cunéaz non è dato sapere se coloro che continuano a mangiare si accorgono di ciò che sta avvenendo, degli slittanti accadimenti come il fumo, in alcuni momenti si trasmutano solo le patate, in altri solo il tavolo. Nell’altra stanza l’artista riprende il discorso della scultura con apparenti ologrammi in realtà fisicamente esistenti. Su un piano-tovaglia sono “apparecchiate” le sculture e, per analogia, vicino alle patate sono messi ingrandimenti di atomi. Gli atomi stessi sono contenuti nell’alimento. “La legge di indeterminazione ha tolto all’uomo ogni certezza. Gli effetti si creano anche senza causa”. Dobbiamo abituarci a guardare le cose in modo strabico, in parte normalmente, in parte estrapolando l’interno invisibile. Si tratta di far convivere due mondi, che già convivono, anche se non siamo in grado di riconoscere il mondo che non vediamo. Il segreto della vita è nel vuoto tra le particelle.