Christine Kettaneh // solo show

Gagliardi e Domke presenta:
#KrisitineKettaneh – solo show

04.11.2017 to 21.12.2017
Via Cervino 16
10155 Torino
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In occasione della Notte delle Arti Contemporanee 2017, la galleria Gagliardi e Domke presenta due progetti, “Smell me, Touch me, Kiss me” e “Hayat”, della giovane artista di origini Libanesi Christine Kettaneh.
Christine Kettaneh
(Vincitrice dei seguenti premi: ORA, AOMI OKABE TOKYO, ARTE LAGUNA ed il premio speciale “artist in gallery” a VENEZIA)
“Nonostante il nostro cervello evoluto, rimaniamo ignoranti in scala macroscopica. Noi siamo, come le formiche, solamente consci delle nostre micro decisioni – costruire questo o quello, spostarci da qui a lì – e dei loro effetti immediati sulle nostre vite. Comunque esattamente queste decisioni prese con coscienza contribuiscono a lungo termine ad un comportamento globale, come quello di una colonia di formiche, un’intelligenza “emergente”, impossibile per noi da percepire immediatamente.
La nostra realtà risiede nei nostri artefatti culturali e nei detriti storici, quindi prodotti di un complesso percorso macroscopico; ma possiamo solo provare ed interagire con la realtà a livello locale,  microscopico. Ragion per cui, osservando attentamente la vita a casa o per strada, abbiamo una sensazione di alienazione – per una mancanza di corrispondenza in scala tra ciò che incontriamo e come ci interagiamo. La sensazione è anche dovuta ad una corrispondenza mancata tra ciò che sappiamo e ciò che percepiamo. La nostra realtà è un prodotto che va oltre la storia quindi la nostra conoscenza non è mai all’altezza. Definire un oggetto o un sistema solo in base alla loro storia potrebbe solo limitarli. Probabilmente dovremmo fidarci della nostra esperienza immediata, il nostro rodente senso di alienazione, per raggiungere una comprensione più completa.
Nel mio lavoro, c’è sempre una relazione con la “materia quotidiana”. Nei progetti presentati da Gagliardi e Domke, esploro il sapone sul mio lavandino, le formiche nel mio giardino, lo zucchero sul mio tavolo da cucina e il linguaggio dalla mia bocca. La mia ricerca, come sempre, comprende un’inchiesta sul linguaggio. C’è un dimenticarsi temporaneamente del significato quando nutro le formiche con l’alfabeto e quando sospendo la mia ricerca sull’origine di Hayat, il sapone. Solo per riprendere ad usare le parole come inneschi rituali per scoprire le possibilità più metaforiche del sentire, toccare e baciare.
Smell me, Touch me, Kiss me
Mio padre aveva creato un orto meraviglioso, ma partì prima che le piante avessero dato i loro frutti. Dopo il suo decimo anniversario mi recai al suo giardino per cercarlo. Per oltre due mesi preparai e servii le lettere di zucchero al giardino. Le formiche risposero. Quando una formica trovava una lettera, marcava con un profumo il percorso verso il nido così che altre formiche potessero seguirne la traccia. Quando una formica incontrava un’altra, si “sentivano” con le loro antenne; a quel punto si baciavano e si recitavano le lettere liquide a vicenda. Attraverso questa intelligenza emergente, le formiche si auto-organizzavano per portarne il significato di punto in punto, trasformando il suolo in una miniera di profumi, contatti e baci.
Hayat
“Hayat” è la mia risposta personale ad una vecchia pubblicità degli anni 50 di un “saboon baladi” (tradizionale sapone libanese) chiamato Hayat. Sulla pubblicità era raffigurata una mano che teneva il sapone con le punte delle dita in modo leggero ed elegante, completamente l’opposto di come si “prende” un mattone grezzo come i “saboon baladi”. Mi son chiesta se è stato il nome Hayat, che in arabo significa vita a permettere una divergenza simile. Ho esplorato vari modi di portare Hayat, provando nel percorso che c’è un linguaggio nella vita e una vita nel linguaggio”
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Gagliardi e Domke Gallery presents:
Krisitne Kettaneh – solo show

04.11.2017 to 21.12.2017
Via Cervino 16
10155 Torino
On the occasion of the night of contemporary arts 2017, Gagliardi e Domke gallery presents two projects, “Smell me, Touch me, Kiss me” and “Hayat”, by the young artist Christine Kettaneh from Lebanon.
Christine Kettaneh won the Aomi Okabe Jury award in Art Olympia in Tokyo (Jun17); she also won the overall Arte Laguna Prize for the ‘Sculpture and Installation category’ and the special ‘artist in gallery’ prize in Venice (Mar’15).
“Despite our advanced forebrains, we remain ignorant at a macro scale. We are, like ants, only conscious of our micro decisions – to build this or that, to move here or there- and their very immediate effects on our lives. Yet those same conscious decisions contribute to a longer term global behaviour like that of an ant colony, an ‘emergent’ intelligence, that we have no way of immediately perceiving.
Our reality at any point resides in our cultural artefacts and in the debris of history, the products of a complex macro course; but we can only experience reality and interact with it at a local, micro level. That is why, when we observe more closely life at home and on the street, we feel a sense of alienation – because of that mismatch in scale between what we encounter and how we interact with it. We also feel alienated because there is no clear correspondence between what we know and what we perceive. Our reality is a product of more than the known history, so our knowledge always falls short. To define an object, a person, or a system by its history would only limit it. We might need to trust our immediate experience of it, our very gnawing sense of alienation, to attempt a more complete understanding.
In my work, there is always an intrigue in the everyday matter. In the next two projects, I explore the bar of soap on my wash basin, the ants in my garden, the sugar on my kitchen table, and the language in my mouth. My search, as always, involves an enquiry into language. There is a temporary forgetting of meaning as I feed the alphabet to the ants and as I suspend my search for the origin of Hayat, the soap. Only to pick up the words again and use them as triggers for rituals in the hopes of smelling, touching and kissing matter’s more metaphorical possibilities.
Smell me, Touch me, Kiss me
My dad had grown a beautiful garden but left just before the trees bore their first fruit. After his 10th memorial I went into the garden in search of him. Over two months I prepared and served sugar letters to the garden. The ants responded. When an ant stumbled across a letter it marked a scented trail on the way back to the nest so that more ants might follow. When an ant encountered another ant, it felt the other ant with its antennae; they then kissed as they recited scented liquid letters to each other. Through that emergent intelligence, the ants self-organized and carried the meaning point by point, transforming the underground into a mine of smells, touches and kisses.
Hayat
‘Hayat,’was my response to an old advertisement from the 1950s of a ‘saboon baladi’ (traditional Lebanese soap) called Hayat. In the ad, was a hand holding the soap up with the tips of its fingers very elegantly and lightly, so unlike how one would carry a rough brick-like ‘saboon baladi’. I wondered whether it had been the name Hayat, which means life in Arabic, whichhad allowed that divergence. I explored possible ways of carrying hayat, proving along the way that there was language in life, and life in language.”

Glaser/Kunz & Piero Fogliati // visions and dreams

Gagliardi e Domke proudly announces:
#Glaser/Kunz and #PieroFogliati – “Visions and Dreams”
@Kunst Raum Riehen, Basel

20.05.2017 – 09.07.2017
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Photocredit: Glaser/Kunz

Martina Brugnara // Fred

Gagliardi e Domke presenta:
#Martina Brugnara – “FRED” site specific installation

06.04.2017 to 29.07.2017
Via Cervino 16
10155 Torino
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CONGERIE
L’uomo ha sviluppato una particolare propensione a produrre “cose”, nel cui novero dobbiamo ascrive anche quegli attrezzi che gli consentono di realizzarle. Tenendo fede a quanto ci dice George Kubler, «nella storia delle cose è compresa anche la storia dell’arte. Le opere d’arte, più degli arnesi, rappresentano un sistema di comunicazione simbolica» che qui funge da tessuto connettivo tra l’abilità del bricoluer e il quoziente estetico dei singoli arnesi. Quelli di Martina Brugnara ci appaiono tanto affascinati quanto enigmatici, per- ché l’utilità pratica, reale o illusoria che sia, è subordinata a una fruizione prettamente visiva.
Attraverso un processo combinatorio, Brugnara sgrava gli oggetti dalla loro vita remota, riscattandoli non soltanto dall’usura e dalla ruggine, ma convertendone la natura utilitaristica in un’esigenza semiotica che diventa snodo/collante tra le arti meccaniche e le arti liberali. Non dissimili dai macchinari esposti in qualche Exposition Universelle del IX o del XX secolo, le opere di Brugnara potrebbero appartenere al genere delle machines célibataires, proprio perché estranee al sistema produttivo. Volendo stabilire un paragone, si potrebbe optare per la funzione svolta dagli statori, che sono direttamente connessi all’equilibrio (alla resa dei conti, torna a imporsi il tradizionale concetto della “composizione”). Ma pur essendo apparecchi in riposo, essi non rinunciano alla loro carica sovversiva: sono strutture tentacolari, provviste di estensioni su cui sono fissate falci, roncole, lime, seghetti, cesoie, asce, spatole, martelli, pinze e altri arnesi che potrebbero attentare all’incolumità dello spettatore.
Tale accumulo è da considerarsi alla stregua di un arsenale, giacché bellus e bellum condividono la stessa radice etimologica. Aspetto che, in questo caso specifico, dobbiamo ricondurre a Karl Elsener, il quale aveva rifornito le milizie elvetiche di coltelli multiaccessoriati che nel corso degli anni diventeranno l’emblema della funzionalità e dell’efficienza. Sulla scorta di questa suggestione, Brugnara asso- cia a ogni opera il nome di un membro della dinastia degli Elsener, la cui nomea è associata all’invenzione e/o alla proliferazione del coltellino svizzero (utensile che potremmo considerare come un fulgido analogon degli assemblaggi cui l’arte moderna e contempo- ranea ci ha abituati).
Poiché Samuel Butler ha detto che «il corpo umano non è che una tenaglia posta sopra un mantice e una casseruola, il tutto fissato su due trampoli», non è improprio stabilire un parallelo tra le opere di Brugnara e l’arte della ritrattistica. Anziché affidarsi a un modellato convenzionale, che si sforza di trovare una verosimiglianza con il soggetto, l’anatomia viene delegittimata in oggetti sapientemente col- legati tra di loro. Com’è ovvio, gli assemblaggi non intendono rappresentare delle persone in strictu sensu, cercano bensì di costituire, o ri-costruire, una “famiglia” di opere che poc’anzi erano state definite macchine, ma che a ben guardare non sono altro che trappole in grado di catturare la nostra curiosità. Premesso che curiosité era il termine con cui nel Settecento si indicavano le arti applicate, Martina Brugnara non aderisce in modo passivo allo scopo per cui sono state create le cose che lei stessa utilizza, si impegna semmai a trasfor- marle in res singulares capaci di produrre stupore, seduzione, sconcerto.
Nel lavoro di Messerschmidt esiste una forte componente autobiografica, le sue teste i suoi volti rappresentano sempre lui o in alcuni casi lui che interpreta differenti personaggi.
Roig utilizza una testa, un volto che non è il suo, per costruire un codice con cui decifrare le ossessioni e i demoni che non raccontano più una storia personale, ma un’immagine collettiva dove riconoscere i frammenti di sé e ricostruirli, nella propria testa.
#AlbertoZanchetta
(direttore Museo di Lissone)
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Gagliardi e Domke Gallery presents:
#Martina Brugnara – “FRED” site specific installation

06.04.2017 to 29.07.2017
Via Cervino 16
10155 Torino
JUMBLE
Mankind has developed a particular tendency to produce “things”, amongst which we must also include the tools used for making them. Martina Brugnara is faithful to the words of George Kubler: “Art history is also included in the history of things. Works of art, even more than tools, represent a symbolic communications system” which, in the case of this artist, serves as a connective tissue between the han- dywoman herself and the aesthetic quotient of each individual tool. Martina Brugnara’s tools are as fascinating as they are enigmatic, because their practical use, whether real of illusory, is subordinate to a purely visual use.
Through a combinatory process, Brugnara relieves the objects of their past life and redeems them, not only from wear and rust, but by converting their utilitarian nature into a semiotic need that becomes the intersection/adhesive between the mechanical arts and the li- beral arts. Like the machines exhibited in some of the universal expositions in the nineteenth and twentieth centuries, Brugnara’s works could well be a part of the genre of machines célibataires for the very reason that they are outside the productive system. If we wish to find a comparison we might find one in the function of stators, which are directly connected to balance (at the end of the day, the traditional concept of “composition” imposes itself). Even though they are abandoned appliances, they do not renounce their subversive load: they are tentacular structures on the extensions of which are fixed sickles, billhooks, files, saws, pincers, axes, spatulas, hammers, pliers and other tools that might threaten the safety of the public.
Such accumulations could be considered as an arsenal, given that bellus and bellem have the same etymological root. This is an aspect that, in this specific case, we must refer back to Karl Elsener who supplied his country’s army with the Swiss army knife which, over the years, was to become an emblem of functionality and efficiency.
Following in the footsteps of this idea, Brugnara has associated each work with the name of someone from the Elsener dynasty, a name which by now is associated with the invention and/or proliferation of Swiss knives (a tool that by now we could consider a shining example of the assemblages that modern and contemporary art has habituated us to). Given that Samuel Butler said that “The body is but a pair of pincers set over a bellows and a stewpan, and the whole fixed upon stilts”, it is not out of place to note a parallel between Brugnara’s work and portraiture. But, rather than
trusting in conventional models, one that attempts to find a likeness with the subject, she reduces anatomy to objects that are cleverly linked together. As is obvious, these assemblages are not intended to represent people in a strict sense but, rather, aim to establish or reconstruct a family of works that earlier I defined as machines but which, on a closer look, are nothing other than traps to capture our curiosity. Given that curiosité was a term used in the eighteenth century for the applied arts, Martina Brugnara does not passively echo the original use of these things that she utilises but, rather, she is concerned with transforming them into res singulares that can produce amazement, seduction, and discomfiture.
#Alberto Zanchetta
(director of Museo di Lissone)

Glaser/Kunz // Ich ist ein anderer

Gagliardi e Domke proudly announces:
#Glaser/Kunz – Ich ist ein anderer
@Kunstmuseum Thurgau, Ittingen

19.o2.2017 – 06.08.2017
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Martina Brugnara // Congerie

Gagliardi e Domke presenta:
#Martina Brugnara – Congerie

19.01.2016 to 27.02.2016
Via Cervino 16
10155 Torino
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CONGERIE
L’uomo ha sviluppato una particolare propensione a produrre “cose”, nel cui novero dobbiamo ascrive anche quegli attrezzi che gli consentono di realizzarle. Tenendo fede a quanto ci dice George Kubler, «nella storia delle cose è compresa anche la storia dell’arte. Le opere d’arte, più degli arnesi, rappresentano un sistema di comunicazione simbolica» che qui funge da tessuto connettivo tra l’abilità del bricoluer e il quoziente estetico dei singoli arnesi. Quelli di Martina Brugnara ci appaiono tanto affascinati quanto enigmatici, per- ché l’utilità pratica, reale o illusoria che sia, è subordinata a una fruizione prettamente visiva.
Attraverso un processo combinatorio, Brugnara sgrava gli oggetti dalla loro vita remota, riscattandoli non soltanto dall’usura e dalla ruggine, ma convertendone la natura utilitaristica in un’esigenza semiotica che diventa snodo/collante tra le arti meccaniche e le arti liberali. Non dissimili dai macchinari esposti in qualche Exposition Universelle del IX o del XX secolo, le opere di Brugnara potrebbero appartenere al genere delle machines célibataires, proprio perché estranee al sistema produttivo. Volendo stabilire un paragone, si potrebbe optare per la funzione svolta dagli statori, che sono direttamente connessi all’equilibrio (alla resa dei conti, torna a imporsi il tradizionale concetto della “composizione”). Ma pur essendo apparecchi in riposo, essi non rinunciano alla loro carica sovversiva: sono strutture tentacolari, provviste di estensioni su cui sono fissate falci, roncole, lime, seghetti, cesoie, asce, spatole, martelli, pinze e altri arnesi che potrebbero attentare all’incolumità dello spettatore.
Tale accumulo è da considerarsi alla stregua di un arsenale, giacché bellus e bellum condividono la stessa radice etimologica. Aspetto che, in questo caso specifico, dobbiamo ricondurre a Karl Elsener, il quale aveva rifornito le milizie elvetiche di coltelli multiaccessoriati che nel corso degli anni diventeranno l’emblema della funzionalità e dell’efficienza. Sulla scorta di questa suggestione, Brugnara asso- cia a ogni opera il nome di un membro della dinastia degli Elsener, la cui nomea è associata all’invenzione e/o alla proliferazione del coltellino svizzero (utensile che potremmo considerare come un fulgido analogon degli assemblaggi cui l’arte moderna e contempo- ranea ci ha abituati).
Poiché Samuel Butler ha detto che «il corpo umano non è che una tenaglia posta sopra un mantice e una casseruola, il tutto fissato su due trampoli», non è improprio stabilire un parallelo tra le opere di Brugnara e l’arte della ritrattistica. Anziché affidarsi a un modellato convenzionale, che si sforza di trovare una verosimiglianza con il soggetto, l’anatomia viene delegittimata in oggetti sapientemente col- legati tra di loro. Com’è ovvio, gli assemblaggi non intendono rappresentare delle persone in strictu sensu, cercano bensì di costituire, o ri-costruire, una “famiglia” di opere che poc’anzi erano state definite macchine, ma che a ben guardare non sono altro che trappole in grado di catturare la nostra curiosità. Premesso che curiosité era il termine con cui nel Settecento si indicavano le arti applicate, Martina Brugnara non aderisce in modo passivo allo scopo per cui sono state create le cose che lei stessa utilizza, si impegna semmai a trasfor- marle in res singulares capaci di produrre stupore, seduzione, sconcerto.
Nel lavoro di Messerschmidt esiste una forte componente autobiografica, le sue teste i suoi volti rappresentano sempre lui o in alcuni casi lui che interpreta differenti personaggi.
Roig utilizza una testa, un volto che non è il suo, per costruire un codice con cui decifrare le ossessioni e i demoni che non raccontano più una storia personale, ma un’immagine collettiva dove riconoscere i frammenti di sé e ricostruirli, nella propria testa.
#AlbertoZanchetta
(direttore Museo di Lissone)
—————

Gagliardi e Domke Gallery presents:
#Martina Brugnara – Congerie

19.01.2016 to 27.02.2016
Via Cervino 16
10155 Torino
JUMBLE
Mankind has developed a particular tendency to produce “things”, amongst which we must also include the tools used for making them. Martina Brugnara is faithful to the words of George Kubler: “Art history is also included in the history of things. Works of art, even more than tools, represent a symbolic communications system” which, in the case of this artist, serves as a connective tissue between the han- dywoman herself and the aesthetic quotient of each individual tool. Martina Brugnara’s tools are as fascinating as they are enigmatic, because their practical use, whether real of illusory, is subordinate to a purely visual use.
Through a combinatory process, Brugnara relieves the objects of their past life and redeems them, not only from wear and rust, but by converting their utilitarian nature into a semiotic need that becomes the intersection/adhesive between the mechanical arts and the li- beral arts. Like the machines exhibited in some of the universal expositions in the nineteenth and twentieth centuries, Brugnara’s works could well be a part of the genre of machines célibataires for the very reason that they are outside the productive system. If we wish to find a comparison we might find one in the function of stators, which are directly connected to balance (at the end of the day, the traditional concept of “composition” imposes itself). Even though they are abandoned appliances, they do not renounce their subversive load: they are tentacular structures on the extensions of which are fixed sickles, billhooks, files, saws, pincers, axes, spatulas, hammers, pliers and other tools that might threaten the safety of the public.
Such accumulations could be considered as an arsenal, given that bellus and bellem have the same etymological root. This is an aspect that, in this specific case, we must refer back to Karl Elsener who supplied his country’s army with the Swiss army knife which, over the years, was to become an emblem of functionality and efficiency.
Following in the footsteps of this idea, Brugnara has associated each work with the name of someone from the Elsener dynasty, a name which by now is associated with the invention and/or proliferation of Swiss knives (a tool that by now we could consider a shining example of the assemblages that modern and contemporary art has habituated us to). Given that Samuel Butler said that “The body is but a pair of pincers set over a bellows and a stewpan, and the whole fixed upon stilts”, it is not out of place to note a parallel between Brugnara’s work and portraiture. But, rather than
trusting in conventional models, one that attempts to find a likeness with the subject, she reduces anatomy to objects that are cleverly linked together. As is obvious, these assemblages are not intended to represent people in a strict sense but, rather, aim to establish or reconstruct a family of works that earlier I defined as machines but which, on a closer look, are nothing other than traps to capture our curiosity. Given that curiosité was a term used in the eighteenth century for the applied arts, Martina Brugnara does not passively echo the original use of these things that she utilises but, rather, she is concerned with transforming them into res singulares that can produce amazement, seduction, and discomfiture.
#Alberto Zanchetta
(director of Museo di Lissone)

Fabio Viale // La suprema

Gagliardi e Domke proudly announces:
#FabioViale – La Suprema
@Kunst&Denker Duesseldorf

20.01.2017 – 30.04.2017
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Kunst & Denker Contemporary presents a duo-show with Laurenz Berges (*1966; Galerie Wilma Tolksdorf, Frankfurt/ Berlin) und Fabio Viale (*1975; Galerie Gagliardi e Domke, Turin).
History and glorification are two sides of the same coin. Longing for the old times, romanticising about what is gone, is both a habit of today and of the past. The Greek-romanic antique developed the idyll genre in literature and art, commonly taking place in „Arcadia“; an allegory of a golden era in the past. But the construction of Arcadia was preceded by an act of destruction: According to mythology, Jupiter created the Arcadian landscape from the half of the Earth that Helio´s son was responsible for: a half which he had burned. The impermanence thus imbued with the idylls surrounds an ambivalence of innocence and decay. As is written in Goethe’s Faust, ” For all that is constructed – the same is worth to be destructed,” Schiller also includes the insight of the impossibility of returning to Arcadia. Instead, he dreams of a future Elysium.
It is precisely this impossibility that can be found in the photographs of Laurenz Berges. Berges’ interest in the perisphere, the urban and social emptiness, lends his work an aura of a post-apocalyptic anti-idyll. The works in the exhibition were created in various cities and villages from 2005 to 2009, depicting motifs of borders and transition, of the view in and out, and of silent interiors where the proliferating nature seems to be the last living creature. Walls with imprints of picture frames, which have hung there, show something that once was, while being unable to tell a story; all that remains are vague traces. Berges calls for a timelessness in his work, which is reflected in the absence of people and objects that could be dated all too specifically. But this supra-temporality inevitably is preceded by history, which remains sealed to us. The social life in the buildings remains fiction, and like the ancient poets, Berges construed his own idyll to ponder their loss, without taking a judgemental attitude . His photographic manner focuses on aestheticized retreats, which no longer exist.
The temporal shift is complemented by Fabio Viale´s sculptures. Whereas he previously produced everyday objects such as car tires, paper planes or styrofoam plates, sometimes appropriately dyed and scented, to question the meaning and usefulness of the materials, he now takes a step back into antiquity. He creates sculptures, refering tohistorical sculptures and tattooing them with a special technique, inspired by motifs of Russian prisoners or Japanese body tattoos – still present in the ‘culture’ of Yakuza. The idealism of the antique is opposed to the desire for an individual presentation, presented in the tattoos as complex pictorial programs. They play with the act of transfering history and its change of meaning in the course of their consumption. Just like in Berge’s photos, any form of style loses its temporality in Viale´s marble sculptures.
Copyright: Kunst und Denker Contemporay
Exhibition views: Celine Al-Mosawi

Glaser/Kunz // solo show

Gagliardi e Domke presenta:
#Glaser/Kunz – solo show

22.09.2016 to 25.02.2017
Via Cervino 16
10155 Torino
Attuando una pratica ponderata che include una pluralità di procedimenti e linguaggi, il duo Glaser/Kunz prosegue la sua investigazione concentrandosi sulla realtà e le sue opposizioni, in un’orbita che attraversa visioni e definizioni, sguardi particolareggiati e ispirazioni di natura poetica, mediando tra echi e letture di un’umanità corporea, fisica e insieme inafferrabile.
Nelle loro opere più conosciute – ormai dei classici del loro percorso –, si sono preoccupati di ricostruire brandelli di realtà, prendendo in prestito, dalla stessa, suppellettili e contesti, ed utilizzando le potenzialità della tecnologia per aderire ulteriormente a questa loro finalità, che non prescindeva da uno sguardo pur sempre analitico sulle relazioni che si innescano tra gli esseri umani e il contesto in cui agiscono.
Ma il duo svizzero non si concentra esclusivamente sui mezzi della tecnologia, entrambi, insieme, avvertono che si possono prendere in prestito dall’arte anche linguaggi e tecniche legate alla tradizione per poter sviluppare una ponderazione plausibile e coerente. E in tal senso il disegno assume un valore assoluto, non solo di studio e preparazione progettuale alle opere multimediali e installative più impegnative – come spesso è accaduto nel loro medesimo percorso –, ma come processo a se stante. Ed è questo il caso. Le carte selezionate per questa mostra – appartenenti alla produzione degli ultimi anni di Glaser Kunz – rivelano un inestricabile groviglio di segni abbarbicati sulla superficie grazie a pennellate calde di inchiostri neri bituminosi che si aggrovigliano irrimediabilmente.
Una gestualità misteriosa si contrappone alla studiata regolarità delle loro ricerche sul fronte tecnologico e multimediale: le opere su carta in mostra rivelano un legame inevitabile con le questioni che il duo affronta nelle opere installative più complesse.
Lo stesso accade con le sculture installate in un altro spazio della galleria: sacchi di juta posati con apparente casualità sulla superficie del pavimento. Sono consunti, provati dal tempo, sfilacciati nella loro medesima materialità, difatti disperdono parte della sostanza che contengono: inchiostro, appunto. Si crea così una sinergia sottesa e lieve con i disegni esposti in un ambiente vicino. L’inchiostro diviene traccia di un immaginario segno che unisce materie differenti – il disegno e la juta – che appartengono allo stesso principio, quello della scultura. L’inchiostro è la traccia di una scrittura sull’esistenza che si sviluppa per sovrapposizioni di ricordi, per associazioni mentali e per disfunzioni che tendono a cancellare e a ricostruire ulteriori frazioni di realtà. “Quello che non ho disegnato io non l’ho visto”, diceva Goethe nel suo Viaggio in Italia. Questa riflessione è paradigmatica per comprendere il valore che assume il segno dipinto con l’inchiostro nero su brandelli di carta bianca.
Con materiali semplici, attivano spazi demiurgici; attraverso una gestualità leggera e incisiva, mettono in relazione la bidimensionalità con la tridimensionalità; lo spazio della rappresentazione e della visione con quello della perlustrazione. Senza severità, ma mediante il ritmo della visione morbida e tattile che contrappone le forme e associandole ai contenuti.
Testo critico: #Lorenzomadaro